Socialità e fraternità, nuove possibilità per la riflessione, la ricerca e l'innovazione sociale

_25-Tiziano-Vecchiato.jpg Tiziano Vecchiato

Sociologo, direttore scientifico del Centro studi e ricerca "E. Zancan" - Padova.

L'evoluzione del pensiero sociologico ha rappresentato efficacemente i modi di essere società e le forme di convivenza umana, soprattutto quelle che hanno caratterizzato il mondo occidentale negli ultimi due secoli. Alle teorie intuitive di tipo organicista sono subentrate quelle funzionaliste, simboliche, strutturaliste, sistemiche, interazioniste e altre ancora. Lo sforzo di descrivere si è spesso confuso con quello di spiegare, di individuare ragioni e cause del perché le organizzazioni sociali funzionino in un certo modo e come prefigurino il loro andamento futuro.

Questa fatica è difficilmente riuscita ad affrancarsi dalle ideologie e dalle filosofie dell'azione sociale e della scienza politica che, contemporaneamente, animavano il dibattito e la scena culturale. Le teorie dell'azione sociale, in particolare, hanno assorbito un grande impegno di tipo teorico e osservativo. A fronte di scenari interpretati analiticamente in termini di aggregazioni, classi sociali, gruppi di riferimento, l'individuo è rimasto nello sfondo, raramente considerato come persona, dentro scenari che lo sovrastavano e lo orientavano ad agire e a conformarsi a regole sociali. L'unità vitale della costruzione sociale è guardata con molta più attenzione da altre scienze, in particolare la psicologia nelle sue diverse ramificazioni, da quelle intrapsichiche a quelle psicosociali.

Il riduzionismo sociologico nei confronti della persona è stato però compensato, strada facendo, con lo sviluppo della riflessione sui gruppi sociali, sull'identità e l'appartenenza, sui fondamenti simbolici che orientano e regolano le scelte. Alle grandi teorie sono, cioè, subentrate teorie di medio raggio e, ancora più nello specifico, studi sui comportamenti quotidiani, mettendo sempre più a fuoco la normalità come problema di conoscenza e di comprensione, facendola coesistere con le questioni dei grandi mutamenti sociali.

Questo poderoso sforzo (di tipo analitico e sintetico) non è stato sufficiente per consegnarci sintesi convincenti ed il risultato oggi predominante è descrivibile in termini di una dominante attenzione alle "strategie": del mercato, della comunicazione, dell'influenza sociale, ecc., cioè dei modi per maneggiare potere, non più su vasta scala (come avveniva nei rapporti di classe), ma su scala ridotta per ottenere e gestire vantaggi a livello medio e microsociale.

Si è, in un certo senso, compiuto un ciclo, che sta dando il meglio di sé nella gestione esperta delle tecniche: studio multifattoriale, osservazione partecipata, combinazione di approcci quantitativi e qualitativi, composizione di analisi orizzontali e longitudinali..., in questo facilitati dal supporto delle tecnologie (informatiche e di altra natura), funzionali nella grande riflessione sociologica a strategie di conoscenza ermeneutica, cioè a prevalente orientamento interpretativo, con il supporto di dati quantitativi.

Sembra, quindi, la vittoria dei metodi e delle tecniche sulla capacità di gestire unitariamente le dimensioni analitiche e sintetiche del pensiero scientifico. Nello sfondo rimane l'impegno di conoscenza della storia del pensiero sociologico. È tuttavia meno evidente l'apporto che tale pensiero riesce a dare oggi ai modi e alle prospettive di convivenza sociale o, come si diceva, di mutamento sociale, di cui oggi avremmo indubbio bisogno.

Ci viene, cioè, consegnato un sapere sociologico più maturo sul piano delle possibili ramificazioni conoscitive e di gestione tecnica del sapere, ma più fragile e in difficoltà sul piano della capacità di sviluppare nuova teoria e nuova capacità esplicativa.

Si potrebbe pensare che questa crisi evolutiva è in parte specchio della crisi dei due paradigmi che, in buona misura, hanno ispirato la sua evoluzione: da una parte l'individuo e dall'altra gli individui, entrambi da liberare (con il liberalismo e il collettivismo).

Il liberalismo si è fatto carico di propugnare e promuovere la liberazione individuale, denunciando le servitù, le negazioni dei diritti, gli effetti perversi di una socialità basata su pochi privilegiati e molti esclusi.

Il collettivismo, soprattutto marxista, ma anche in altre espressioni, ha fatto della lotta sociale di emancipazione la questione dominante, anche quando essa è diventata altro da sé, lotta di razza, di nazione, spesso perdendo di vista, nel secolo scorso, le ragioni che "legittimavano" tale lotta, la liberazione dall'oppressione, facendone essa stessa ulteriore strumento di oppressione.

Oggi vediamo e ricordiamo, con drammatica evidenza, i diritti negati di gruppi, classi sociali e altre appartenenze umane e sociali, calpestate, talora eliminate su base etnica, razziale o di altra diversità.

La sociologia ha tendenzialmente considerato questi fenomeni dalla parte dei più deboli, senza considerare i potenziali devastanti che le aggregazioni sociali più potenti avrebbero potuto esprimere, facendo del bisogno di convivenza sociale una questione di dominio, di salvaguardia di sé, di negazione dell'altro. In certi casi si è giunti a ipotizzare che la propria libertà comportava legittimamente la eliminazione della diversità. Le ferite di questa storia sono dolorosamente aperte e ci vorrà ancora tempo per capire i percorsi di guarigione.

Quello che accomuna - liberalismo e collettivismo - è, in particolare, il fatto che entrambi hanno fatto leva e rivendicato i giusti diritti degli esclusi, identificando nel conflitto, cioè nella lotta per i diritti civili, nella lotta di classe ed in altre forme di lotta, il costo necessario per la conquista di un bene, la libertà che, pur nascendo dal conflitto, avrebbe garantito un mondo migliore.

Per due secoli questa conquista, dei diritti e delle dinamiche ad essa sottese, è diventata il principale oggetto di studio, ricerca, riflessione, proposta. Non a caso il funzionalismo ha trovato condizioni di sviluppo negli Stati Uniti e non nella "vecchia Europa", perché i problemi di organizzazione sociale, ivi comprese le nuove dinamiche di mercato, avevano lì un terreno di cultura più libero dalle questioni delle grandi appartenenze, gestibili a livello micro e medio-sociale per la fisiologica coabitazione di molte diversità.

Le costituzioni nazionali hanno rappresentato e legittimato in modo nobile questa ricerca, marcando in modo contrattuale (di contratto sociale), il terreno dei propri valori e delle proprie regole di convivenza umana. Al contrario, le guerre del Novecento sono diventate l'altare sacrificale dove spargere il sangue delle tensioni contrapposte. È un dramma che confonde le nostre coscienze e le costringe a ripercorre i sentieri della memoria, senza perdere, tuttavia, l'attitudine a gestire questa memoria in modo selettivo e conflittuale. Ancora oggi il ricordo delle vittime è gestito per legittime appartenenze, senza esplorare anche altre chiavi di lettura, come forse un "nuovamente" interpretato senso di fraternità umana potrebbe cercare di fare.

Una socialità fondata tradizionalmente su appartenenze conflittuali non può non rispondere al richiamo della propria supposta naturalità. D'altra parte gli stessi diritti o, meglio ancora, la cultura moderna dei diritti nasce e trova ragioni di essere proprio da contratti tra pari, dove il confine include gli aventi diritto ed esclude gli altri.

È infatti in questo connubio di vantaggio dentro l'appartenenza che si cementa la differenza contro chi è fuori (oltre i margini) della comunità sociale di interessi. Chi è fuori è extra moenia, analogamente a chi, in quanto extracomunitario, non ha titolo per beneficare di diritti che non gli appartengono e che non si è storicamente guadagnato per ragioni successorie (di razza, nazione, oggi anche di appartenenza regionale) o per ragioni di possesso del territorio, come avviene nel mondo animale.

Sono, cioè, effettivamente prevalse alcune delle grandi promesse della rivoluzione francese, le prime due: "liberté" ed "egalité", intese come affermazione dei diritti dell'individuo e delle nazioni (i gruppi costituzionalizzati), mentre si è persa per strada l'altra grande promessa di nuova socialità: la "fraternité". La sua assenza ha sostanzialmente reso impossibile esperienze di socialità di cui stiamo discutendo, basate sulla ricerca di dare equilibrio e fertilità alla compresenza delle tre dimensioni.

La fraternità avrebbe potuto essere esplorata scandagliando i suoi potenziali sociali, intesi, non solo come valore in sé, ma anche come necessario bilanciamento tra cultura dei diritti individuali e di gruppo sociale (che ha prevalso) e cultura dei doveri (rimasta nell'ombra delle scelte private).

Col senno di poi si può affermare che è stata una grande occasione perduta o, quantomeno, sospesa per due secoli, forse perché la sfida era, ed è, così alta che richiedeva e richiede un travaglio più lungo di quanto storicamente e ragionevolmente si poteva pensare.

Avrebbe forse potuto svilupparsi studiando i potenziali sociali della fraternità non solo come valore in sé (valore umano e spirituale), ma anche come valore sociale vitale e quindi vivificante bilanciamento delle categorie appena citate, quasi totalmente orientate all'avere, cioè sulla questione dei diritti individuali e sociali, non ancora messi in rapporto diretto con i doveri personali e sociali (la costituzione italiana ha tentato di farlo, ma con scarsi risultati).

Abbiamo quindi bisogno di esplorare questa possibilità e prospettiva e di capire come favorire l'incontro tra diritti e doveri in forme non moralisticamente prescrittive. L'esperienza della fraternità, con i suoi valori e le sue potenzialità, rappresenta pertanto una promessa ancor molto fragile per nuove frontiere di socialità, forse di più, per nuovi modi di essere società.

Le sfide globali che quotidianamente avvertiamo ci dicono della necessità, non differibile, di sperimentare nuovi percorsi, perché quelli conosciuti, come già detto, sono basati sulle ragioni del conflitto, sulle ragioni della diversa appartenenza, a partire dalla premessa, non dichiarata, dell'altro come ostacolo e come problema da dominare e, nelle forme più deteriori, da negare.

Per avviare con buone ragioni (cioè con motivazioni culturalmente capaci di valore socialmente aggregante) la costruzione di premesse positive per la fraternità è anzitutto necessario apprendere dall'esperienza, che ci ha visto perdenti. Essa ci dice che l'attuale presente e le sue conseguenze future sono proprio quello che faticosamente vorremmo, e dovremmo, lasciarci dietro le spalle. Le ragioni del conflitto e della violenza, infatti, dominano ancora la scena dell'informazione quotidiana e (soprattutto) della nostra vita sociale.

Non c'è quindi alternativa? Non basta riconoscerlo e prenderne atto, perché comunque i vantaggi di un conflitto provvisoriamente vinto danno guadagni appaganti, anche se di breve periodo, che allontanano nel tempo la ricerca di soluzioni più stabili.

Se quindi l'asservimento intellettuale e culturale a paradigmi ormai superati ci costringe a ripetere percorsi di negazione e sofferenza, bisogna nel contempo cercare di scoprire e praticare nuova socialità, tenendo conto che non è in gioco la scoperta intellettuale di una soluzione, ma la nascita e la crescita di nuove pratiche di affrancamento dalle difficoltà presenti. La speranza è quella di una socialità riconciliata, che potrebbe equivalere ad un salto di civiltà, nel senso non presuntuoso che questo termine ha quando si riesce a dare espressione a modi più positivi di convivenza umana. È già avvenuto in passato e quindi non sarebbe la prima volta che questo  accade.

I tentativi sono stati numerosi, di segno ambivalente e forse anche per questo con esiti inadeguati. Ad esempio, in senso non positivo, l'utopia comportamentista ha a lungo accompagnato l'illusione sociologica di poter capire, e quindi dominare, la filiera dei percorsi decisionali e dei fattori che li determinano. Questo è avvenuto mentre contemporaneamente le teorie della relatività e della complessità cercavano di fare da contrappeso al pensiero prevalente e alla illusione di dominio tecnico sulle dinamiche sociali.

La stessa evoluzione del pensiero filosofico, particolarmente generoso nell'alimentare sia gli sviluppi liberali sia quelli di ispirazione socialista, ha messo in guardia dalle tentazioni del pensiero totalizzante. Perfino la riflessione logica ha provvisoriamente preso atto che il finito delle regole non può contenere l'infinito (con il teorema di Gödel). Questo ci insegna anche oggi le potenzialità di esperienze sociali non basate sul costituito (il presente/passato), aprendo opportunità verso mondi possibili, nuovi, da esplorare e abitare.

A ben vedere in questo andamento la cultura del dominio, cioè dell'avere, mostra i suoi limiti profondi e radicali pur avendo trovato espressioni nobili, quali, ad esempio, l'idea di esigibilità dei diritti fondamentali. La stessa nota contrapposizione tra avere e essere oggi non ci aiuta. Infatti, la dominanza di un certo modo di intendere l'essere, in termini di identità definita per contrapposizione, non ha fatto altro che sostenere e alimentare la visione positiva del conflitto e dei costi che esso comporta come alternativa sostanziale alla "pace", cioè alla possibile coesistenza delle differenze, che è premessa di fraternità. Il dualismo "avere o essere", infatti, come tutti i dualismi ha finito per sollecitare (positivamente) un pensiero basato su un'opzione apparentemente obbligata (l'essere), ostacolando il riconoscimento delle trappole dell'identità oppositiva.

Per questo la prospettiva della fraternità può aiutarci a superare proprio le forme soltanto dialettiche di pensare e di essere, di integrarle, farle evolvere, verso forme in cui la fraternità è fonte di nuova vita personale e sociale.

Ad esempio la fraternità potrebbe caratterizzare in modo nuovo la dimensione del dono, non soltanto come altruismo e reciprocità, cioè in termini di scambio, che è prevalente nella cultura attuale, anche del volontariato, ma come dono in quanto tale. Si può, infatti, dare non soltanto per giustizia o per altruismo, ma anche per ragioni ulteriori, difficilmente comprimibili nei modi attuali di pensare le relazioni umane.

Potrebbe sembrare irriverente mettere in discussione schemi mentali e valoriali che hanno ispirato la crescita e la riflessione di generazioni, ma, se non cerchiamo di farlo, trovano sostanziale continuità le ragioni dell'individuo non ancora "fratello", cioè capace di ragionare in termini di reciprocità e giustizia, ma non ancora capace di pensare in termini di gratuità e di dono senza contropartite, che non siano il bene dell'altro e di tutti.

L'icona che forse meglio descrive le condizioni di un salto, non solo di scelta di fede, ma anche di prospettiva culturale verso una nuova socialità, ci viene proposta da Giovanni 15, quando parla della vera vite.

1 "Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. 9 Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore."

 

È una proposta di fraternità profonda. Con linguaggio sociologico di altri tempi si potrebbe dire, sbagliando, organicista e funzionalista. Essa, infatti, non propone una fonte di sicurezza, quasi una assicurazione per tenersi collegati alla fonte di vita, ma propone il senso profondo della fraternità come legame di figliolanza, cioè di sangue vitale (la linfa che è nei tralci e nella vite) e il senso ancora meno intuitivo del contenere ed essere contenuti ("chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto") che è cosa "altra" e ulteriore rispetto all'appartenenza generatrice di differenze e di conflitto.

Anche il rischio del conflitto è ben rappresentato da Giovanni con la possibilità di essere "gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano". Il fuoco che brucia quanto è buttato è l'esito della "guerra" intesa come strategia di soluzione sociale dei problemi. Caino aveva prefigurato tutto questo con la sua domanda "sono forse io custode di mio fratello?" È la risposta della società senza fraternità, che rompe i legami vitali, che invece l'icona della vite ci rappresenta senza spiegarli compiutamente.

Sarebbe riduttivo liquidare le potenzialità della "fraternità", umanamente intesa, come ingenua utopia. In scala diversa, infatti, le sfide della globalizzazione ci stanno presentando il conto - anzi il debito accumulato - di uno sviluppo umano e sociale (ma anche ecoambientale) non più sostenibile, almeno finché prevale la logica apparentemente ragionevole di Caino.

Da qui una sfida alla sociologia, meglio ancora alla sua capacità di sviluppare teoria, conoscenza e soluzioni da sperimentare e da mettere a servizio dei problemi che sono di fronte e dentro di noi.

Se, ad esempio, abbandoniamo la prospettiva macrosociologica, che potrebbe apparire presuntuosa e, per questo, scoraggiante, e ci riportiamo in un orizzonte più circoscritto, possiamo riconoscere le tracce di queste contraddizioni in alcune "novità" sociali che hanno caratterizzato gli ultimi 20 anni delle politiche sociali. Lo scenario è quello del sistema italiano di welfare e delle dinamiche tra soggetti e gruppi impegnati nell'offerta di servizi alle persone.

Negli anni '80 le risposte ai bisogni umani fondamentali (tutela della salute, tutela e promozione dei più deboli, bisogni di integrazione sociale...) erano attribuite  (e gestite) alle responsabilità istituzionali (lo stato, le regioni e gli enti locali), grazie all'esercizio della solidarietà fiscale. Ne è nato un equivoco e cioè che il sistema di welfare fosse per sua natura statale (welfare state), dimenticando che alle istituzioni era stato affidato il compito di amministrare il patrimonio di solidarietà e di ridistribuirlo, visto che socialmente non c'erano altre soluzioni (quelle che oggi impropriamente vengono definite di welfare community).

La principale reazione è stata quella di cercare di riposizionare le responsabilità in termini più sociali, allargando cioè l'esercizio delle responsabilità di rispondere ai nostri bisogni, spostando dai soli soggetti istituzionali ad altre organizzazioni sociali una parte della responsabilità del prendersi cura dei problemi dei più deboli, della lotta alle disuguaglianze, della promozione di beni comuni. Sono perciò cresciute le presenze e i ruoli del volontariato organizzato, della cooperazione di solidarietà sociale e di altre forme non profit di gestione delle risposte di welfare ai bisogni umani.

Si è poi cercato di andare oltre, affidandosi ad una idea più rischiosa, perché liberata dai gravami della solidarietà, ed espressa in termini perentori "meno Stato e più mercato", cioè meno governo solidaristico e più scambio concorrenziale, nella speranza che questo avrebbe aumentato l'efficienza produttiva.

Il pensiero duale e dialettico non ha, cioè, smesso di generare differenze e contrapposizioni, oscurando le potenzialità di un incontro più ampio di responsabilità, che solo una società riconciliata e più capace di fraternità può esprimere adeguatamente.

Può sembrare paradossale, ma oggi un certo modo di definire e legittimare socialmente il volontariato fa leva proprio sulle categorie di reciprocità e di scambio economico e non sulle ragioni più profonde del volontariato, come capacità sociale di organizzare esperienze di prossimità, donazione, fraternità.

Sembrerebbe quasi che i nuovi modi di essere società vengano cercati nella rincorsa verso le ragioni estreme (liberistiche e non più liberali) di un credo in cui l'individuo ridiventa norma di se stesso. Anche Lucifero forse aveva ragionato così quando si è condannato a pensarsi come alternativa al suo bene, tagliandosi fuori dall'albero della fraternità e della vita.

La ricerca di fraternità oggi nei servizi alle persone si è concentrata sui legami, le relazioni, le reti solidali, le collaborazioni tra diversi. In certi casi si è trattato di una riedizione del funzionalismo in chiave moderna (reti di risorse solidali), non abbastanza vivificate dal personalismo (reti di soggetti e di responsabilità).

La tendenza è sempre quella di privilegiare i problemi di dinamica e di funzionamento e non abbastanza dei nuovi fondamenti necessari per un incontro di responsabilità capace di andare oltre lo scambio, facendo del dono, cioè del portare frutto, un nuovo valore sociale, considerando i significati positivi del potare per poter dare più frutto.

La cultura dei diritti sollecita, senza dichiararlo, l'utopia dello sviluppo illimitato, quella dei doveri ci richiama alla responsabilità e alla sostenibilità dell'abitare sociale. È la stessa casa, che ai fratelli appare grande, bella da vivere e da migliorare e che, invece, ai non fratelli appare inevitabilmente stretta e angusta, da "liberare", ma anche con le conseguenze che ben conosciamo.

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