de-maina_paolo Paolo De Maina*

Agape e servizio sociale Può l'amore, l’agape essere legato alla professione del servizio sociale?
In un suo libro“Aspetti dell'amore” (Editrice TEA, Milano, 2005) John Amstrong, si occupa, tra l’altro, del concetto di amore, cioè la scelta di aiutare qualcun'altro quando si trova in difficoltà, senza giudicarlo, e cercando di sviluppare in lui quelle capacità ed autonomie, che gli permetteranno poi d'affrontare gli eventuali e futuri problemi della sua vita, senza esserne schiacciato.
Alla luce di questo, ci si può legittimamente chiedere se il rapporto fra il Servizio Sociale Professionale e la persona con cui entra in relazione, può essere considerato un rapporto d'amore, inteso in senso agapico.
Certamente la questione è di difficile, o almeno complessa risoluzione anche se un aiuto in tal senso può essere l’uscita dall'illusione ottica che vede nel richiedente solo il “soggetto destinatario” del servizio, senza tener conto che essa è anche il soggetto attivo che rende possibile il servizio e concorre a realizzarlo (Bianchi E., Vernò F., 1995). Questo potrebbe rappresentare l’inizio di una reciprocità, piccolo prodromo di percorso agapico.
Lo stesso avviene quando un processo di aiuto viene condiviso con una persona in stato di bisogno che, insieme con chi si occupa di lei, con¬tratta il progetto di aiuto per superare i propri problemi.
In questo intreccio si può meglio comprendere il signifi¬cato di servizio alle persone e trarne conseguenze a livello di teoria e di pratica della valutazione.
In questi casi risulta più evidente il Dna dei servizi alle persone: per realizzare i loro obiettivi hanno bisogno di far incontrare le loro risorse (professionali, economiche...) con quelle di quanti sono destinatari del loro lavoro, passando dalla logica dell'offerta alla logica dell'incontro di re¬sponsabilità, necessarie per rendere possibile, oltre che efficace, l'azione di servizio (Tiziano Vecchiato).
È quindi necessario che il Servizio Sociale Professionale sia consapevole di quanto dovrebbe avvenire nel rapporto di aiuto: un incontro di responsabilità e di risorse professionali e personali.
 Questo, evitando la spesso limitante burocratizzazione del SSP, diminuirebbe progressivamente la sclerotizzazione della capacità di un Servizio di essere tale.
 Affrontare e parlare di un argomento potenzialmente illimitato come l'amore, chiaramente comporta la necessità di fare delle scelte, e di affrontare il tema solo da alcune prospettive.
Una, ad esempio, è l’importanza dell'amore per il prossimo nell'ambito delle professioni d'aiuto, quali vantaggi apporta, sia alle capacità dell'operatore di intuire e di capire l'altro, riuscendo così ad avere un'arma in più per condurre a buon fine il problema della persona, sia alla persona che si rivolge e, sentendosi amato, si sentirà anche accolto, capito e avrà fiducia nelle capacità dell’Operatore ed anche nelle sue.
Entrando maggiormente nell’argomento, avvicinare la parola amore o agape ad un ambito come quello del servizio sociale professionale può essere visto, in un’ottica metodologica e scientifica o purista, sicuramente fuori luogo e pericoloso. Fuori luogo, perché ci si potrebbe domandare cosa centri l’amore in un rapporto di un professionista che offre le sue conoscenze. Pericoloso perché è considerato da molti, in quest'ambito, un sentimento sicuramente controproducente e persino dannoso.
Riflettere sull’amore e sulle sue implicazioni all’interno del servizio sociale non è in ogni caso fuori luogo. Si deve prendere in considerazione l’aspetto più maturo, e ciò che di positivo apporta sia nella vita del professionista e nella sua capacità d’aiutare il prossimo attraverso l’empatia, la tolleranza ed il non giudizio, sia nella persona che lo incontra che si sente considerato ed apprezzato.
Come dice Fromm per poter amare gli altri bisogna prima di tutto amare se stessi e una professione come questa a stretto contatto con le persone ed i loro problemi.
Essere amati è, infatti, il desiderio più forte d’ogni essere umano, esserlo per quel che si è, con i propri pregi e difetti, essere compresi in modo ampio, senza sentirsi respinti, eliminando quindi quel dubbio spesso presente, che l’amore scomparirà quando i lati più oscuri, ed i comportamenti poco corretti verranno alla luce, o contestualizzandolo nell'ambito del servizio sociale quando l'operatore scoprirà aspetti non piacevoli della personalità di chi gli sta di fronte.
Così si esprime la Wittemberg nel suo libro “Teorie Kleiniane e Servizio sociale” nei riguardi dei sentimenti apportati da quest'ultimo nella relazione con l’assistente sociale, ed in fondo non c’è nulla di male in tutto questo, proprio perché amare e voler essere amati è un bisogno d’ogni persona.
Amare il prossimo significa in fondo cercare di comprenderlo, di rispettarlo ed evitare ogni giudizio. È  un aspetto dell’amore che nasce dalla fragilità e dal bisogno, affinché sotto le mancanze ed i difetti si riescano a scovare le buone qualità. Chi è capace d'amare è pronto al perdono e lento all’ira, perché è conscio del fatto che non è possibile sapere cosa accade nella parte più profonda d’ogni persona. 
Avere un simile approccio è però molto difficile perché non è sempre possibile riuscire, in ogni momento della propria vita lavorativa e no, agire simili capacità. Le buone intenzioni spesso non bastano, perché l'amore deve diventare reale per poter essere comunicato, e manifestarsi attraverso il comportamento. I modi in cui lo si manifesta risultano essere più facili da cambiare rispetto a ciò che lo innesca, perché le manifestazioni fisiche sono legate alla sensibilità ed all'immaginazione, mentre l'innesco si lega all'intensità del sentimento provato. Se quindi si riesce a manifestare in modo adeguato sollecitudine ed amore, chi si rivolge ad un servizio è in grado di gioire per le esperienze buone ed esserne grato. Egli sperimenta il non sentirsi più solo. Il senso di solitudine si genera non tanto perché si è soli fisicamente, ma perché si sente che gli altri non sanno capirci in profondità.
Un sentimento che può diventare angoscioso quando si forma una voragine tra la propria vita interiore e l'incapacità altrui di comprendere il nostro modo di pensare e sentire.
Il senso di fallimento – voragine angosciosa – che pervade chi ha incapacità di uscire dal problema, accomuna chi è incapace di dare risposte adeguate.
Quindi il limite (quello che Vera Araujo nella sua introduzione ci ha fatto conoscere come Gesù Abbandonato) è il mediatore, il rapporto nel processo di aiuto e solo attraverso il tentativo di accettazione del reciproco dolore è la chiave di una risoluzione, è la cura, la soluzione. 
Se il servizio sociale coi suoi Operatori è in grado di comprendere, capire e contenere il dolore, chi gli sta di fronte riesce a rendersi conto che esiste qualcuno capace di vivere con aspetti che lui teme, perché interesse e comprensione permettono di non essere sopraffatti dai sentimenti temuti, si riesce a modulare l'angoscia, ad arricchire il proprio mondo interiore e renderlo più stabile, e costruire quindi una buona relazione basata su fiducia, collaborazione e gratitudine.
Un altro elemento fondamentale verso un principio agapico è un metodo proprio anche del servizio sociale professionale: l’ascolto.
L’ascolto nella nostra società tende ad essere concepito come criterio di potere, di influenza, di capacità di ottenere consenso dagli altri, come capacità di condizionare gli altri piuttosto che come servizio nei confronti di chi è debole, di chi chiede di essere sostenuto, di chi chiede di essere conosciuto, compreso, ascoltato appunto, nelle proprie richieste e nelle proprie difficoltà.
Un Servizio che abbia la presunzione di dare risposte deve avere la tendenza all’ascolto per evidenziare anche sul piano terminologico e d’immagine come l’ascolto sia una posizione che si colloca esattamente all’opposto della posizione di potere, di pretesa.
L’ascolto inizia quando accettiamo di rispettare e comprendere chi è di fronte, quando accettiamo di fare entrare nella nostra mente la parola e la comunicazione dell’altro, pur rimanendo noi stessi, quando accettiamo di metterci in una posizione di recettività, di apertura.
L’ascolto responsabile potrebbe portare alcune risposte:
 far riflettere chi si rivolge al Servizio per trasformare la preoccupazione in risorsa, per dare una prospettiva ed una speranza;
 informazione sulle risorse presenti
Quindi occorre una capacità di empatia e riconoscimento della soggettività della persona, capace di entrare in relazione e di mantenere un "filo diretto" ed in grado di fornire la percezione di essere al centro del sistema dei Servizi e non satellitare rispetto ad esso.
Del resto chi si rivolge ai servizi non sempre ha la semplicità e la capacità di “dirsi”, di raccontarsi.
Il filosofo Emmanuel Lévinas, del resto affermava che descrivere la vita ordinaria, richiede più coraggio di un samurai!
In quest’ottica, il richiedente, ed in fondo anche il professionista sociale riescono a sperimentare una soddisfazione profonda. Il primo si sente sostenuto e capito, il secondo è riuscito ad aiutare l'altro, facendogli comprendere quali sono le sue forze ed i suoi punti deboli, e sostanzialmente si sono aiutati a vicenda nel diventare persone più equilibrate e complete.
Il professionista che riesce ad ammettere che si è vulnerabili emotivamente come l'altro, permette di leggere nelle sue azioni e parole la manifestazione delle sue sofferenze, più che la volontà di ferire, per cui si è in grado di perdonare. L'amore allora aiuta ad indagare le cause profonde di questo agire, perché anch'io avrò, prima o poi, bisogno della comprensione altrui, e per questo devo essere in grado di perdonare.
È possibile applicare queste concezioni anche nell’ambito del Servizio Sociale Professionale e delle professioni d’aiuto. Il primo elemento è l’ambiente di sostegno, cioè un ambiente caratterizzato da coerenza, affidabilità, e protezione da qualunque intrusione proveniente dall'esterno o dall'interno.
Il rapporto che si forma fra l’assistente sociale e la persona è complesso. Chi si rivolge si trova in una posizione di vulnerabilità legata al bisogno di ricevere aiuto da altri, e già prima dell’incontro si sarà fatto una sua idea del professionista e di che persona sarà, formandosi delle aspettative, legate soprattutto alla possibilità di ottenere risposte, al riuscire a prendere decisioni, ed eliminare il dolore.
Cerca cioè qualcuno che lo supporti temporaneamente e condivida con lui il suo percorso e l'aiuti a prendere delle decisioni, in modo da eludere il dolore emotivo connesso all'ignoranza ed all'incertezza, che porta limite e senso di colpa.
Anche il professionista quando andrà ad operare si troverà spesso ad affrontare le sue paure.
Il problema principale delle professioni d’aiuto è che per poter aiutare gli altri è necessario aiutare prima se stessi, nel senso che serve una profonda conoscenza di sé, delle proprie capacità e dei propri limiti. È il professionista d’aiuto, del sociale, per primo che deve essere in grado d'essere “solo in presenza di un altro”. È chiaro che in ogni persona esistono zone d’ombra, paure o altre negatività, che se non si sono volute affrontare comportano la difficoltà di lavorare in un ambito simile. Prima o poi infatti la persona che ci si siederà di fronte sarà lo specchio di quelle paure.
Anche fare male è un timore spesso presente nel professionista d’aiuto e può avere radici diverse. Si ha paura che le forze emotive che emergeranno e che potrebbero essere non gestibili.
Traendo qualche conclusione, probabilmente, trovandosi di fronte a qualcosa di troppo ampio e che non è possibile né definire né delimitare, si può al massimo, e dopo un'attenta valutazione, dire cosa non è l’amore.
È una realtà dai molteplici aspetti, per cui quelli più appariscenti, o quelli che si sperimentano durante la propria vita, sono solo sfaccettature dell'amore inteso nel suo insieme. Questo significa che esistono molti altri lati, altrettanto importanti, che spesso si manifestano in noi o nei rapporti con gli altri, ma di cui non ci accorgiamo perché le diamo per scontate, non ci si bada, o manchiamo della sensibilità necessaria per vederli, capirli ed apprezzarli.
Pertanto il rapporto fra il professionista e la persona può essere considerato un rapporto d'amore tutte le volte che si manifestano premura, ascolto, accettazione, tolleranza e desiderio di capire. Tutte le volte che si è anche curiosi, ma si ha comunque come scopo e volontà quello d'aiutare una persona.
Le capacità da mettere in campo nell'aiutare l'altro, derivano proprio dalla volontà di amare il prossimo.
Infatti spesso questo elemento, che sembra costitutivo e fondativo delle professioni d’aiuto, non è proprio così scontato.
Si è notata veramente, in tal senso, la lenta, ma decisa evoluzione da un individualizzazione del bisogno con la connotazione di utente, cliente, all’affermazione di un vero paradigma di comprensione che possiamo definire “relazionale” (P. Donati) perché intende la società, ogni modo di essere del sociale - anche nell’economia, nella politica, nella cultura - come relazione sociale.
Quindi la nuova fase delle politiche sociali, dello scienziato del sociale, dovrebbe comprendere la società, vedendo, analizzando, interpretando e gestendo la relazione sociale.
Ci sembra di poter porre all’attenzione, senza voler dare una risposta, ma ponendo sottovoce una domanda, il fatto che finora le scienze sociali si siano orientate in una prospettiva individualista, ponendo anche innumerevoli rallentamenti alla dimensione della famiglia, enfatizzata come guscio di problemi e abbastanza limitatamente come risorsa e quindi difficilmente posta in grado di gestire, con supporti e sostegni, l’eventuale “problema” al proprio interno.
La stessa cosa si può dire della comunità, del gruppo sociale, non intesi come astratti meccanismi e “cose”, ma come realtà pulsanti che possano operare una presa in carico collettiva.
Questo ha favorito, unitamente ad altri mutamenti sociali, il forte riflusso privatistico con la paura e la chiusura all’altro. In questo senso si può dire che a un livello più profondo sta andando in crisi l’idea di solidarietà sociale che sta alla base della concezione e delle pratiche dello Stato sociale tradizionale.
Il paradigma relazionale è ciò di cui il sistema dei servizi ha bisogno per riuscire a distinguere l’umano nel sociale, e che cosa invece favorisce la sua dis-umanità o non -umanità.
Questo, oltre a porsi in termini di risposta a bisogni personali, familiari e comunitari può portare un contributo ad una società sempre maggiormente destinata ad essere dominata dai puri interessi economici, dalla paura e dai rapporti di forza (Donati P., Colozzi I. (2006), Il paradigma relazionale nelle scienze sociali: le prospettive sociologiche, Edizione Il Mulino, Bologna).
Questa dimensione porta a porsi, forse, come facilitatori di un percorso sociale e non come un Dio minore, capace di una onnipotenza improponibile, spesso grave peccato non veniale dei professionisti del sociale.
Per parlare di persona, dovremmo attingere al suo concetto filosofico, pedagogico o sociologico o forse, per comprenderne il significando più profondo abbiamo bisogno proprio di una interdisciplinarietà.
Ma forse occorre anche un approccio estremamente concreto per rispondere al lavoro quotidiano di chi si trova davanti a richieste, domande, attenzioni, soluzioni sociali.
Comunque è bene anche sottolineare che non sempre individuo e persona li si debba porre in un piano antitetico tout court.
Con persona si intende indicare da una parte un essere caratterizzato da potenzialità che attendono di essere attuate e dall'altra l'accoglimento di un numero elevato di significati che difficilmente possono trovare un punto di sintesi.
L’individuo, invece, è la proiezione temporale, in divenire di questa realtà.
Spesso la cultura occidentale, pur riconoscendo fin dall'antichità la centralità e la pregnanza del concetto di persona, lo ha frequentemente sostituito con termini ritenuti equivalenti ma meno compromissori.
Paradossalmente la modernità, con l’affermazione sempre più netta dell’individuo, ci porta la comparsa di un io dai contorni più netti, meno caratterizzato dalla variabile spirituale, etica e affettiva, relazionale.
Per ritornare alla nostra prassi, al nostro campo d’azione uno dei possibili errori di chi governa un processo d’aiuto è non comprendere questo processo evolutivo e puntare nell’immanente risposta prestazionistica.
Con tutti gli strumenti concessi dal processo sociale d’aiuto, si deve riuscire a condurre l’individualità di chi si approccia ad un servizio (i suoi bisogni presenti, reali, che attendono una esigibilità) alla sua dimensione di persona, cioè capace di gestire il suo processo di uscita dal bisogno
Poi si pone il tema del rapporto tra individuo e collettività, società.
Spesso lo si vive, anche perché la quotidianità ce lo fa vivere, in una perenne contrapposizione. Così, forse il problema è posto male.
Perché se l’individuo io lo vedo chiuso in questa sua realtà, il problema c’è…
Mentre in una prospettiva agapica, come vorremmo affrontarla qui, l’idea di persona appare ricca di identità, carica valoriale e soprattutto di relazioni societarie e comunitarie, in una parola, ricca di storia.
Persona vuol dire relazione, possibilità e capacità di porsi davanti all’altro e venire da esso riconosciuto.
Le persone compongono la relazione che li avvolge, li comprende, li contiene, li trasforma condizionandoli dall’esterno e stimolandoli dall’interno. La relazione allora diventa una realtà fra i due o più, nata e alimentata dal loro essere e dal loro agire e, a sua volta, alimenta il loro essere e il loro agire, li aiuta a crescere e maturare in un dato modo e con una crescente profondità di vita (Vera Araujo, Castelgandolfo, febbraio 2005).
Quindi, in quest’ottica, il Sistema dei servizi, da sempre orientato a considerare i destinatari del proprio intervento non a se stanti ma facenti parte di un sistema di rapporti e legami, sta operando una “svolta relazionale”, una possibile opzione teorica di supporto al proprio metodo e a quelle intuizioni operative e valori radicati che, nel passato, non sempre avevano trovato un quadro razionale al cui interno sviluppare coerenti percorsi di intervento (A.M. Campanini, Servizio sociale e sociologia:storia di un dialogo, LINT, Trieste 1999)
Un insieme di capacità che per essere attuate hanno un passaggio fondamentale da affrontare, cioè quello, prima di tutto, d'amare se stessi, avere cioè superato le proprie problematiche individuali, i propri conflitti, per riconoscersi semplicemente esseri umani, coi propri pregi e limiti, bisognosi anche noi degli altri. È quindi attraverso l'amore per se stessi che il prossimo acquista importanza, perché se non ci si ama, l'altro sarà sempre un potenziale specchio delle nostre paure.
Ma allora quale potrebbe essere una via agapica nel rapporto tra professionista e persona in un percorso di gestione della propria vita, volta all’uscita da un bisogno?
Probabilmente attraverso l’esperienza di essere nulla perché si è tutto nell’altro (l’esperienza reale di Gesù Abbandonato/persona tracciato da Vera Araujo e patrimonio del Carisma della Lubich) porta ad un percorso fattivo verso l’essere professionista d’aiuto in senso agapico.
Ecco allora che scompare la paura, il desiderio d'onnipotenza e d'onniscienza, per entrare in una dimensione più a misura d'uomo, in cui ci si sente liberi e finalmente se stessi.
Arrivare fino a questo punto è un percorso per niente facile, pieno d'ostacoli, e di fatica, che richiede, a volte, tutta la vita.
Pertanto l'agape nel rapporto tra il Professionista del Servizio Sociale e la persona non solo può esistere, ma è addirittura necessario, un amore vissuto, però, nel rapporto d'aiuto, in modo maturo e rispettoso di se stessi e dell'altro, perché sono proprio i tanti elementi che compongono e caratterizzano l'amore a far sì che si possa creare un ambiente di sostegno, ed un rapporto in grado d'aiutare.

Specialista in programmazioni e gestioni politiche e servizi sociali. Funzionario direttivo del Comune di Roma

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