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Con contributi di: Luc Boltanski, Michael Burawoy, Annamaria Campanini, Axel Honneth, Paulo Henrique Martins.

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neve_elisabettaQualche riflessione sulla teoria del servizio sociale

Elisabetta Neve*

1. Il principio-obiettivo della globalità e integrità della persona.
Come mai questo concetto è così fondamentale nel servizio sociale professionale? Quale significato gli viene attribuito?
Il servizio sociale nasce “dalla pratica” dei volontari dell’assistenza (nelle C.O.S. anglosassoni) che si accorsero di come si comportavano coloro che erano afflitti da problemi che non riuscivano a risolvere da soli: furono colpiti soprattutto dal fatto che spesso, alla dipendenza dal bisogno si aggiungeva un’altra dipendenza: da chi forniva gli aiuti, e questa era più difficile da combattere. Era come se questi pionieri del servizio sociale ritenessero che il problema più grande non era tanto la malattia, l’abbandono, l’invalidità, la povertà…, ma piuttosto la riduzione o la perdita di autonomia, di autostima, di potere sociale che ne conseguiva, e perciò si attrezzarono per combattere questa dimensione dei problemi delle persone.
Constatarono difatti che serviva ben poco dare le necessarie prestazioni se poi le persone non erano in grado di farne un mezzo per emanciparsi, per rientrare a pieno titolo nel tessuto sociale come qualsiasi normale cittadino.
La dipendenza è una questione di relazioni sociali (tutti dipendiamo da tutti). Ma si fa problema – in generale - quando la società, pur con la migliore intenzione di “aiutare” chi soffre, riduce l’“essere persona” di chi soffre ad un sottomesso, a semplice destinatario o consumatore di aiuti (quando non gli venga anche richiesta riconoscenza o obbligo ad assumere determinati comportamenti…). È problema perché il messaggio implicito è: “poiché tu non sei capace, non ‘puoi’, decido io per te”. È problema perché viene negata la sfera più intima e delicata dell’essere persone, che solo in quanto tali hanno sempre il potere anche di “dare” (amare?), e nessuno glielo deve togliere.
Ma un meccanismo più raffinato – e quindi più occulto – di riduzione delle persone a “dipendenti” è una certa concezione moderna delle scienze sociali, quelle nate per capire più a fondo i comportamenti dell’uomo e della società. Inevitabilmente la scienza parcellizza, specializza la conoscenza (è un limite intrinseco alle nostre strutture cognitive) ma, nel momento in cui essa si traduce in agire professionale, facilmente spezzetta, separa, frantuma anche le singole “parti” della persona umana e della società. Così troppo facilmente diciamo che la persona “è” il suo problema (è un cardiopatico, è un povero, è un disadattato…), venendo inchiodata in un’etichetta che nega o ignora il valore principale della persona stessa, il suo patrimonio di risorse (la sua intenzionalità, il suo bisogno-diritto di esprimersi e scegliere per la propria vita…).
Anche il servizio sociale, come tutte le professioni, è “specializzato” per un pezzo. Il fatto però che il suo “oggetto” di interesse sia in generale la relazione tra le persone e il loro ambiente sociale, ha forse agevolato una sua posizione critica rispetto ai paradigmi scientifici tradizionali: la sua preoccupazione – molto pragmatica – è sempre stata quella non di cambiare la persona rispetto alla sua patologia, e né di cambiare la società indipendentemente dalle persone che ne fanno parte, bensì quella di “modifica della persona nella misura in cui ciò sia necessario perché possa incidere nella realtà sociale per la risoluzione dei suoi problemi (e accetti di farlo) e la modifica della realtà sociale in quanto questa possa avvenire con i diretti interessati” (Ossicini Ciolfi, 1980, 91). Ne emerge un’idea di relazione che è squisitamente umana, perché generativa, costruttiva, in cui si lasciano integre le potenzialità di crescita umana degli uni con gli altri.
Se tutti i problemi che possono colpire le persone (povertà, deprivazione, devianza…) sono analizzabili e affrontabili con il necessario aiuto delle conoscenze scientifiche “specialistiche”, chi opera direttamente con le persone e con le istituzioni ha sempre bisogno di ricondurre ad unità i “pezzi” analizzati, altrimenti quella che chiamerei l’imponderabilità della persona, la sua sfera più intima e più importante, quella che la scienza e la tecnica fanno fatica a misurare, scompare… ed è così che la persona diventa il suo problema (anche ai propri occhi), viene in fondo reificata. Si può anche dire che viene sopraffatta da una struttura sociale (scientifica, culturale, istituzionale…) apparentemente neutra, in realtà violenta.
Io credo sia questo il senso del concetto di globalità su cui poggia il servizio sociale (che non a caso è particolarmente propenso e attrezzato per azioni di integrazione…), anche se il suo cammino per dotarsi di tecniche e strumenti adatti a descriverla e misurarla – quindi a renderla “dicibile” - è ancora lungo e difficile.
2. Un altro concetto riguarda l’ottica con cui il servizio sociale guarda ai problemi e al suo campo d’azione. Si parla di tridimensionalità, di trifocalità… Significa che la centralità della persona è agibile solo se è aiutata a ricollocarsi nel suo contesto comunitario, che è pure fatto di persone, e senza le quali non sarebbe possibile costruire identità: l’esperienza di sé è inscindibile dai legami con il contesto in cui viviamo. Il terzo soggetto – l’istituzione cui appartiene il professionista – è quello che consente la messa in moto dell’azione di aiuto, che quindi entra prepotentemente nella sfera personale sia del singolo che della comunità, con compiti di regolazione, di promozione, di responsabilizzazione; potrei dire in una parola di crescita di una società solidale.
Gli assistenti sociali hanno sempre a che fare con questi 3 soggetti, con i loro legami spezzati o inquinati; essi lavorano per conto e con tutti e 3, anche nel momento in cui si incontrano in un rapporto diretto con ciascuno di loro…
Insomma, è come dire che il ruolo di “guida relazionale” tipico dell’assistente sociale si traduce in realtà in un ruolo triadico, teso a costruire legami di solidarietà che sono propri dell’essenza di ogni persona, ma che anche travalicano i confini di ogni persona.
3. Vorrei aggiungere un’altra considerazione, che forse è abbastanza appropriata in questo contesto e legata al concetto di globalità.
Anche il professionista è una persona. Forse è lui stesso a rischio di subire la prima separazione: tra il suo essere persona, privata, e il suo essere professionista. Non penso certo ad un ideale integralista, che porterebbe all’idea (assurda) di dover “vivere” gli stessi problemi dell’utente per essere in grado di capirlo e rispettare la sua essenza di persona. Ma ho la convinzione che se il professionista non mette in moto dei tratti di identificazione “personale” con chi soffre, mettendo cioè in gioco anche parti “intime” di sé, difficilmente può capire ed agire adeguatamente. Mi riferisco a quel quid ancora poco indagato dalla scienza (amore? solidarietà reale?) che è sia spinta (ad andare verso l’altro, a decidere di intraprendere quella professione…), sia modalità di approccio (con varie sfumature ma che sono sostanziali), sia parte essenziale delle valutazioni tecniche.
Forse per chi ha concretamente sperimentato questa maggiore continuità tra l’essere professionista e l’essere persona risulta più chiaro. Un esempio: un geriatra ha scritto un volumetto in cui racconta la sua esperienza di figlio di una madre colpita dall’Alzheimer: “Vivere con una persona affetta da demenza è un’esperienza complicatissima, ma straordinaria anche scientificamente oltre che umanamente e che manca a molti specialisti e professionals […] perché permette di scoprire l’altro volto. L’ultimo dono dell’amore di mia madre è proprio quello che io possa raccontare e rappresentare ciò che ho vissuto nella sua malattia come esperienza di figlio, di uomo e di medico e forse chissà anche di futura vittima della demenza”. (Cester e De Vreese, 2003, L’altro volto della demenza).
Mi sembra che anche questa testimonianza vada un po’ contro corrente: una certa scienza ci suggerirebbe di tenere ben distinta la sfera personale da quella professionale (per mantenere l’obiettività e quindi l’efficacia). Se invece si riesce a coglierne con equilibrio i nessi di continuità (che comunque giocano nelle concrete azioni professionali!) non si può non constatarne il valore aggiunto nei risultati degli interventi: anzi, forse è la via più appropriata per un’azione di aiuto che non crei danno.
*Docente di Servizio Sociale all'Università di Verona. Collaboratrice della Fondazione Zancan.
Riferimenti bibliografici
Cester A., De Vreese L.P. (2003), L’altro volto della demenza, Vega, Mareno di Piave.
Ossicini Ciolfi T. (1980), “L’assistente sociale ieri, oggi e domani”, in La rivista di servizio sociale, n. 2.

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