L'amore
al tempo
della
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Con contributi di: Luc Boltanski, Michael Burawoy, Annamaria Campanini, Axel Honneth, Paulo Henrique Martins.

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catemario_armandoContributo alla discussione su “Agire agapico e scienze sociali”

Armando Catemario*

Chi mi conosce sa già che cosa ho fatto nella mia vita finora: ho fatto l’antropologo culturale, però sono stato anche libero docente di filosofia morale, con laurea in giurisprudenza (vengo da studi di Filosofia del Diritto), assistente ordinario di sociologia e, dopo un’esperienza freudiana e un’altra junghiana, facilitatore in psicoterapia rogersiana (ho pure insegnato per un anno psicologia sociale alla facoltà di Statistica). In ogni caso, ciò di cui parlerò è un po’ lontano, forse, dalla sociologia strettamente intesa. Però sufficientemente all’interno dell’antropologia culturale, e soprattutto di quella specializzazione che una volta si chiamava “cultura e personalità” e che ormai da vari anni si chiama “antropologia culturale psicologica”, un ramo di grande rilevanza dell’antropologia culturale, che è una delle tre scienze sociali di base (secondo l’UNESCO). Ma vorrei ricordare il titolo specifico del mio intervento: “Amore e speranza nella pratica di vita fra utopia e salvezza”. “Amore e speranza” io li trovo molto legati e in alcuni autori essi sono in qualche modo internamente collegati (si pensi a Bloch, o a Fromm: ma la speranza immanente, come è presente in questi autori, non ha nulla da offrire di fronte alla radicalità della tragedia umana) e poi la recente enciclica di Papa Ratzinger, che mi ha molto coinvolto, sembra riportare questo nesso alla ribalta e quindi vi farò un breve riferimento.
Intanto vorrei dire che, sia come antropologo culturale psicologico, sia come persona, il modo in cui io mi apro all’”Agape” è un tantino diverso da quello che – forse è un’impressione mia – emerge più diffusamente qui. Il dono di se stesso, l’eroismo, occuparsi degli altri, sì, questo è certamente un aspetto importante anche per me, però io lego l’Agape anche allo sharing, come dicono gli anglosassoni, al condividere, cioè all’essere “tutti uno”, secondo il linguaggio, del resto, di Chiara Lubich, che mi ha sempre molto colpito. Certo, questo senso della partecipazione alla vita di tutti, quest’insistenza di Chiara Lubich sui “tutti”, sull’amare tutti sembra più presente nella ricerca psico-socio-culturale, che in quella più strettamente sociologica, pur essendo essa partita, come studio dell’altruismo, proprio dalla sociologia (fu infatti il suo fondatore, Comte, a coniare il termine), ma lo studio si arrestò a Sorokin (che pure fondò un centro di ricerca sull’altruismo). E l’altruismo appare chiaramente come un sinonimo di amore, solidarietà, fraternità e termini affini. Ed è soprattutto nelle discipline psicologiche che si è sviluppata di più (v. psicologia morale, psicoterapia sociale, psicologia umanistica, psicologia transpersonale, ma anche psicologia sociale, della personalità, ecc.). Qui mi limiterò comunque a ricordare uno degli autori più noti in questo ambito anche ai sociologi, e cioè Fromm - un autore di cui io sono stato un seguace (pubblicai anche un libro su Fromm: La società malata). Egli, alla metà del secolo scorso, scrisse L’arte di amare, in cui sosteneva che l’amore, l’amore universale, l’amore per tutti - e raccomandava di capire bene che le forme particolari di amore, qualora non rientrino nell’amore per tutti, sono forme false di amore - l’amore, dunque, così inteso, è la risposta al problema dell’esistenza e il problema dell’esistenza è dato dalla particolare condizione umana, contraddittoria, in cui si radicano i bisogni psichici dell’uomo. Coscienza, libertà e ragione rendono l’uomo una “bizzarria” – dice Fromm – rispetto agli altri viventi. Deve scegliere, è solo, è consapevole di dover morire e tutta una serie di elementi che discendono da questa situazione trovano soluzione, trovano risposta piena solo nell’amore. Nell’amore inteso, appunto, come partecipazione alla vita degli altri soggetti.
La definizione di amore che Fromm stesso ha adottato, mutuandola dallo psichiatra neo-freudiano Harry Stack Sullivan, che lo riferiva alla scoperta, nella pre-adolescenza, dell’amicizia – anticipazione di quella che sarà poi la sua maturità, per un rapporto d’amore con l’altro sesso – e seguìta anche dalla buddhista tibetana Connie Miller, si riferisce alla consapevolezza sensibile che i bisogni altruidiventano importanti come i propri. Molto vicina, questa, alla formulazione dell’antropologo Montagu. L’amore dunque significa “vivere i bisogni altrui come fossero propri”: ecco, questa mi pare la definizione forse più fedele dell’esperienza agapica. L’amore certo può diventare reciproco – spesso lo è – ma Fromm, come Chiara Lubich, esplicitamente sottolineano il carattere attivo, l’iniziativa dell’amare, che non ha in vista l’essere amato, anche se accettano il ricambio con immensa gioia.
Ma c’è un altro aspetto che va, mi pare, sottolineato e affermato con forza: all’inizio del nostro incontro, ieri, sembrava che l’amore fosse tutto nell’impegno del fare, che è certo importante. E’ giusto quello che diceva la signora Araújo, che cioè è, e si manifesta, nel fare. Però lei lo collegava all’esclusione dal sentimento, dal cuore – io l’ho segnato questo, appunto, perché mi pare necessario chiarirlo. Per me invece è fondamentale il cuore. Anche nel Vangelo, infatti, si parla negativamente di coloro che restano “duri di cuore” e del resto si parla spesso qui in un tono affettivo semplice e addirittura si auspica il ritorno all’infanzia come la via per entrare nel Regno dei Cieli – e questo è significativo perché l’infanzia è l’età più permeabile all’amorevolezza pura. Dice Fromm che l’amore non consiste in atti isolati, ma è un orientamento del carattere, quindi non un evento specifico rispetto ad un determinato oggetto, ma un orientamento generale.
Però Fromm diceva anche che esso è fortemente ostacolato in una società come la nostra. Egli era molto colpito soprattutto dagli orientamenti prevalenti del carattere sociale contemporaneo (anche sulla base di ricerche empiriche, da quella sui lavoratori in Germania a quella su un villaggio messicano, e non solo sulla sua esperienza terapeutica), come l’orientamento mercantile, quello sadomasochistico, fino all’alienazione. Ma sottovalutava, forse, un aspetto che, a mio avviso, è diventato sempre più importante, e cioè la permeazione nella cultura occidentale di una differenziazione verticale di valori delle persone: tra vincenti e perdenti. Ormai questa espressione “un individuo è vincente o è perdente” è diventata generale da noi, anche se ci è venuta dagli Stati Uniti. Negli Stati Uniti la consapevolezza della gravità della competizione come modo di rapportarsi all’altro sempre più estensivo – come lamentava la psicoanalista sociale Karen Horney negli anni ’30, addebitando anche, opportunamente, alla cultura il fiorire di nevrosi legate appunto alla competizione – emerse allora come un problema, che forse in Europa ancora non si era presentato come rilevante. Del resto, negli anni ’30, quando Karen Horney scriveva Cultura e Nevrosi e poi La personalità nevrotica del nostro tempo, si costituiva una sezione particolare di un famoso centro di studi sociali, che coinvolgeva soprattutto antropologi e psicologi, su “cooperazione e competizione”. Un celebre testo di Margaret Mead, la nota antropologa, metteva in luce la dimensione solidaristica ed egualitaria delle società pre-stratificate, cioè delle società dei raccoglitori di cibo (collettori, cacciatori, pescatori). Questo testo, dal titolo Cooperazione e competizione tra i popoli primitivi, diventò allora un punto di riferimento critico dell’etica sociale in generale. Successivamente la competizione, anche in USA ma ora in tutto l’Occidente, è ritornata alla ribalta, e più che mai come valore positivo. E il suo ostacolo alla solidarietà è diventato determinante – anche per la deregolazione crescente che ha avuto il primo livello della morale, e cioè quello delle regole – per cui i bisogni altrui si presentano ormai in costante antagonismo con i propri. La valorizzazione dell’individualismo competitivo, che mira al protagonismo di vincere, di essere superiore agli altri, fa ora nascere anche una serie di teorie nella corrente biologistica della sociologia (v. la socio-biologia) e persino nella antropologia. Infatti, per l’antropologo Barkow, mantenere la stima di sé, che significa mantenere la salute mentale, è possibile solo con la superiorità sugli altri. E, del resto, il pedagogista progressista, Alexander Neill, famoso per i suoi esperimenti permissivi, già all’epoca degli anni ’30 – ’40 scriveva che per star bene un ragazzo deve in qualche modo essere superiore “almeno a qualcuno, almeno in qualcosa”. Questo “craving for superiority” diventò in effetti – lo si ricordava prima – uno dei temi di ricerca del Centro di Scienze Sociali di New York negli anni ’30. E’ indicativo il termine usato in uno di questi lavori, “craving”, perché bene esprime l’ardente bramosia nella ricerca di questa superiorità.
Comunque, prima di ritornare alla questione dell’ostacolo, posto ancora più massicciamente oggi, dalla società occidentale all’amore – e addirittura al rispetto delle regole – per la competizione e la lotta, considerate non più zone neutre come prima (il che era già un errore moralmente) ma addirittura valori positivi, vorrei a questo punto fare un discorso a monte, a proposito delle disarmonie naturali che stanno alla base di quel che la cultura può fare plasmando la personalità e orientandola verso, o la competizione, o la cooperazione: vorrei cioè affrontare il tema del “Centrismo”. Mi scuso se vi faccio perdere tempo leggendo qualche citazione, però mi pare utile far parlare anche altri oltre me. Edgar Morin, che voi certamente conoscerete come sociologo, ne La la vita della vita scopre la centralità per la materia vivente del centrismo. Egli scrive che: “Ogni essere vivente, dal batterio all’homo sapiens, per effimero, particolare, marginale che sia, si prende come centro di referenza e preferenza. Si dispone nel più naturale dei modi al centro del suo universo e in esso si auto-trascende, cioè si innalza al di sopra del livello di tutti gli altri esseri. Egli si afferma così in un sito privilegiato e unico, in cui diviene centro del suo universo, e da cui esclude ognialtro congenere, compreso il gemello omozigote. E’ l’occupazione esclusiva di questo sito egocentrico che fonda e definisce il termine di soggetto.”
Questo riguarda, in effetti, tutto il mondo dei viventi, ma è nella specie Homo sapiens sapiens che avviene l’estensione, dal piano fisico, strumentale, al piano psichico, del “centrismo”. Si tratta appunto del “centrismo psichico”, che qualcuno chiamerebbe, più fedele all’insegnamento psicoanalitico, “narcisismo”, ma che io preferisco invece chiamare “centrismo”. E sia perché il centrismo assume due forme: una individuale, che si confonde con il narcisismo, e l’altra, che è nota proprio sempre come centrismo, cioè l’etnocentrismo e altre forme di gruppo-centrismo come maschio- centrismo, ingroup – outgroup, ecc.; sia perché il narcisismo mette in luce il rapporto di amore per se stesso, di attrazione per se stesso, mentre invece molti fenomeni chiamati narcisistici mirano al ricevere amore, considerazione, stima, da parte degli altri e quindi non è l’amore di un sé preferito agli altri che si cerca (Narciso che si rimira nello specchio e che ama la sua immagine). L’individuo è solo, ha bisogno che altri, direbbe Sartre, lo confermino, lo “giustifichino nella sua contingenza” e, perché questo avvenga, ci sono due vie. Una è quella di imporsi al mondo, o di essere da esso obbligatoriamente riconosciuto (potere o prestigio) come fine: abbiamo visto come la posizione di centro dell’universo significhi che ogni vivente percepisce solo se stesso come centro – come soggetto in termini umani – tutto il resto è oggetto, cioè fascio di attributi in funzione dei propri bisogni, quindi un mezzo, uno strumento. Questa posizione centrica l’individuo umano la vorrebbe riflessa, confermata. Già la cura del bambino abitua questo ad essere considerato centro dell’universo, centro delle cure, delle attenzioni degli altri e, quindi, tra il riflesso psichico della situazione fisica e la conferma della cura materna, o di chi gli fa da madre, egli si vive come centro. Con lo sviluppo, a mano a mano, giunge alla consapevolezza crescente che stanno aumentando, sì, le sue risorse per agire sul mondo, ma che sta perdendo la sua centralità in esso e l’unica alternativa che gli rimane è quella di identificarsi con altri centri, appartenendo a queste altre unità (famiglia, campanile, patria, coetanei) e così spostando l’oggettualizzazione al di fuori, al resto degli altri (gruppocentrismi, ingroup contro outgroup, branco): monocentrismo, cioè ego – più gruppo-centrismo.
L’altra via è invece quella del policentrismo – o dell’onnicentrismo, come essa fu chiamata dal filosofo italiano Ugo Spirito – cioè del centrismo di tutti. Ed essa si affaccia, nello sviluppo ottimale dell’uomo, come la maturazione dell’empatia, dotazione originaria della specie, e che si traduce in altruismo. La ricerca in questo campo nelle scienze sociali si dovrebbe estendere molto più centralmente alla psicologia sociale. Infatti la psicologia sociale da 40 anni sta studiando un ambito, assolutamente scoraggiato fino a qualche tempo fa dagli psicologi, come essi stessi testimoniano: quello dell’altruismo, dell’empatia, in generale del comportamento pro-sociale. Apprendiamo qualcosa di molto significativo da questi studi. Per esempio, due esperimenti indipendenti, importantissimi riguardo al tema della solidarietà – uno di Hoffmann, l’altro di Sagi – testimoniano che il neonato di un giorno piange sentendo piangere un altro bambino. Essi hanno anche fatto una serie di controprove, in ambedue gli esperimenti, di pianto simulato attraverso computer, ma il bambino non si lasciava ingannare: il bambino piange quando piange un altro bambino in carne e ossa e ciò viene considerato da questi autori – e da una buona parte della psicologia sociale contemporanea – come la base, l’apparizione aurorale dell’empatia. Maya Pines giustamente mette in luce che a due anni il bambino, lungi dall’essere il polimorfo perverso di freudiana memoria, è un “buon samaritano”, perché offre i giocattoli, le carezze, quello che ha a disposizione, per confortare la madre – o chi per lei – se la vede soffrire; e Sullivan – citavo prima – dice che, nella pre-adolescenza, finalmente si scopre l’altro soggetto, l’altro “come me”. Questa rilevanza umana dell’empatia, che è un fatto emotivo, non un fatto cognitivo (cioè, l’egocentrismo infantile, che è anzitutto cognitivo, normalmente viene dovunque a superarsi con la mera crescita; è l’egocentrismo emotivo che viene superato soltanto se la società lo educa al riconoscimento degli altri), è legata alle necessità evolutiva della specie (v. MacLean). E qui sono determinanti le ricerche antropologiche, che ci mostrano una umanità solidaristica ed egualitaria, nelle società cui si accennava prima, dove la competizione sembra una mostruosità. Il perché nei popoli raccoglitori, e perciò nel novantanove per cento della vita umana sul pianeta, ci sia stata la realizzazione nella pratica di vita di quelli che saranno poi e altrove gli ideali della rivoluzione francese, cioè libertà, uguaglianza, fraternità, spesso a livello solo ideale, richiederebbe un discorso a sé (se mai posso rinviare, per chi è interessato, a una bibliografia adeguata). La nostra società invece, e oggi più di ieri, di fatto si occupa di educare a distinguersi, a emergere. Ieri è stato fatto un elogio della competizione: io devo, con dispiacere mio – perché l’elogio è stato fatto da una persona gentilissima nei miei confronti, ma ognuno ha le sue idee – fare una critica di fondo e la farò non personalmente, ma citando quello che ha scritto Rollo May, uno psicoanalista esistenziale molto noto anche in Italia. Egli ha scritto infatti che “la competizione è la più pervasiva occasione di ansia della nostra cultura”. Una affermazione categorica di questo tono non è una mera imprudente generalizzazione o una fiorita espressione retorica, ma è di grande rilevanza data la sua provenienza, e il motivo per cui la competizione genera ansia, continua May, non risiede nella psicopatologia, nella nevrosi, ma piuttosto nella natura stessa dell’individualismo competitivo, che va considerato una delle caratteristiche definienti la nostra odierna cultura. Questa filosofia competitiva combatte contro l’esperienza di crescita della comunità e l’assenza di un senso concreto di comunità è un fattore di importanza centrale nello sviluppo dell’ansia nella società contemporanea, continua May. Occorre dunque promuovere iniziative teorico-pratiche del tutto contro corrente. La competizione, oggi, si giustifica e si valorizza, dice lo psico-pedagogista Alfie Kohn, fondandosi su quattro miti: che è innata, che è produttiva, che è divertente, che rafforza il carattere; e che siano meri miti e non affermazioni verificate l’autore lo dimostra attraverso una notevole mole di ricerche scientifiche, che egli ha raccolto nella sua opera sull’argomento.
Ma ora vorrei tornare (scusate se è fuori tempo) sull’amore, con una parola sulla speranza. Se io amo davvero tutti, anzitutto in quanto esistono (il bodhisattva – si dice nella letteratura buddhista mahayana – gode, è felice nel vedere apparire all’orizzonte una nuova creatura, perché gli dà felicità già la mera percezione di altri esistenti), poi perché hanno bisogno, e poi perché hanno universali qualità umane, che subordinano il desiderio di fruire dei loro peculiari attributi, graduabili anche solo soggettivamente come appaganti, per i quali essi entrano in gara con i terzi in offerta a chi li sceglierà perché sono ricchi, sono belli, e non perché sono, perché esistono – come si diceva ieri citando una bellissima pagina di Chiara Lubich.
Eppure, se io davvero amo quest’altra persona – esulto nella gioia altruistica, come vuole una delle quattro virtù sublimi predicate dal Buddha e presente, come è noto, anche in S. Paolo, e ho compassione della sua sofferenza – io non posso rimanere insensibile al fatto che un sofferente, addirittura forse un minus habens, che non ha mai avuto niente di veramente appagante nella vita, che ha sofferto tanto senza compenso, senza trarre alcun beneficio dal suo dolore, sta morendo. Io sono magari incaricato, come psicologo, di parlare con lui, perché è un malato terminale (c’è tutto un ambito della psicologia dedicato al problema), e non posso dirgli niente altro se non che noi siamo vicini anche in questo momento (perché tutti dobbiamo morire, ecc.). Ma perché noi possiamo essere vicini davvero, e non retoricamente, anche in questo momento ci vuole la speranza che la vera vita si possa dischiudere altrove a compenso della mera incomprensibile afflizione umana. Horkheimer, il fondatore della Scuola sociologica di Francoforte, ha espresso in modo toccante questa “nostalgia del totalmente altro” con l’auspicio che “il coltello del carnefice sulla vittima non sia l’ultima parola, perché il mondo è fenomeno”. In termini pre-filosofici, il “mondo è fenomeno” significa che il mondo è mistero e al mistero si può rispondere con un abbandono fiducioso, ancorché oscuro, a una possibilità di salvezza.
Io non sono credente e tuttavia, anche senza fede, posso ancora sperare in una salvezza post-mortem, di tutti: solo così non abbandonerò, impotente, chi si vede scomparire nel nulla. La speranza, nell’enciclica del papa, come del resto, seppure immanentisticamente, anche in Fromm, è molto legata alla fede, eppure è anche qualche altra cosa. Essa ha di mira, come ripete da S. Agostino Ratzinger, qualcosa di conosciuto e sconosciuto insieme, qualcosa che sta dentro di me in profondità, qualcosa che indica un’altra possibilità di vita, piena di innocenza e di gioia: si tratta di un sentire del cuore, non di una mera fredda conoscenza. Coerentemente, ascoltare questa voce significa anche attutire il proprio attaccamento immediato alla vita quotidiana e quindi, se io sono davvero con colui che sta soffrendo senza senso, non potrò che dirgli, io che vivrò ancora e magari meglio di lui, che la vera vita non può essere qui, che la vera vita è altrove, per me e per lui: sarà questo che ci fa essere insieme, ora e per sempre.

* Antropologo culturale all’Università La Sapienza di Roma

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