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Con contributi di: Luc Boltanski, Michael Burawoy, Annamaria Campanini, Axel Honneth, Paulo Henrique Martins.

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Rolando-cristao_Rosalba-demartis(foto da sinistra a destra : Rosalba De Martis, Silvia Cataldi, Gabriela Melo)

Rosalba De Martis

1) Il primo intervento è stato preparato insieme da Anna Maria Leonora e Silvia Cataldi.

Ci esporranno, entro il breve spazio di cui disponiamo, il conflitto in Marx. Lo faranno, come sentirete, inquadrandolo nel contesto più ampio della teoria marxiana della realtà, facilitando in questo modo una comprensione più precisa della sua concezione del conflitto e della funzione sociale che lui gli attribuisce. Nel farlo, hanno saputo valorizzare gli aspetti positivi ed ancora attuali della visione marxista, rilevando allo stesso tempo i limiti teorici e le contraddizioni pratiche che la stessa storia recente ha fatto emergere in modo drammatico.

RIFLESSIONI SUL CONTRIBUTO DI KARL MARX

Anna Maria Leonora

Silvia Cataldi

La concezione del conflitto nel pensiero di Marx è frutto di un percorso di tematizzazione che trova costante riferimento nella riflessione di Hegel, dalla quale Marx cercò di allontanarsi nel corso della sua maturazione, pur continuando a subirne profonde influenze[1]. In particolare, come è noto, la principale eredità che Marx ricevette da Hegel, è costituita dalla dialettica, che rappresenta non soltanto lo strumento privilegiato di interpretazione della realtà, ma anche la legge stessa di sviluppo della storia: essa infatti è per Marx un metodo d'indagine, che consiste nel prospettare la realtà come una totalità processuale storico-dinamica caratterizzata: 1) da momenti interconnessi tra loro, rispetto ai quali è necessario porre attenzione ai legami e agli aspetti di condizionamento reciproco; 2) da un insieme di contraddizioni che rappresentano la molla per lo sviluppo.

A differenza di Hegel, però, in Marx il soggetto del processo di scontro dialettico non è rappresentato dallo Spirito (ossia dalla ragione) quanto piuttosto dagli uomini, o meglio da soggetti storicamente determinati, di profondità collettiva e non personale. Questi soggetti sono per Marx le classi sociali, che vengono definite in base ai rapporti di produzione, cioè in base ai rapporti che si instaurano tra gli uomini nel corso del processo produttivo; esse sono cioè esito del modo in cui ogni società provvede al suo mantenimento e al soddisfacimento dei propri bisogni materiali attraverso la trasformazione dell'ambiente e la divisione del lavoro.

La storia dunque, per Marx, non è altro che il conflitto perenne tra le classi. L'uomo infatti si trova sempre nella condizione di dover soddisfare i propri bisogni e, nell'azione continua di strappare alla natura i mezzi per il proprio sostentamento, entra in relazione con gli altri, istituendo rapporti altamente strutturati, i cosiddetti rapporti di produzione: questi ultimi definiscono la ripartizione dei compiti lavorativi e hanno il compito di regolare il possesso e l'accesso alle risorse, che, essendo limitate, generano e perpetuano il conflitto, opponendo gli interessi contrapposti.

L'essenza della storia, quindi, non è caratterizzata da una natura spirituale o coscienziale, ma prettamente di tipo materiale, per cui è possibile dire che la forza motrice (anche se non l'unica) che muove la storia (anche nella sua dimensione culturale ed ideologica) è l'attività trasformativa degli uomini, che permette ad essi non solo di sostenersi, ma anche di realizzarsi attraverso lo svolgimento di un'attività creativa di modificazione dell'ambiente circostante, in relazione sia alle proprie esigenze individuali, sia a quelle di natura socio-relazionale.

La lotta di classe, quindi, non deriva soltanto dallo scontro tra interessi contrastanti, ma da uno scollamento tra le forze produttive e i rapporti di produzione. In ogni epoca storica è infatti possibile rintracciare per Marx, dapprima un momento di stabilizzazione in cui le forze produttive (ossia i mezzi di lavoro, i modi di produzione e i soggetti lavoratori) sono in equilibrio con i rapporti di produzione, e in seguito un momento di crisi in cui le forze produttive risultano più avanzate e più sviluppate, ma i rapporti tendono a rimanere immobili, creando tensione. Nasce così lo scontro tra le classi sociali e in particolare tra le classi produttrici e quelle dominanti, ove le prime sono all'avanguardia e le seconde, invece, tendono a rimanere ancorate ai loro interessi e ai privilegi dello status quo.

In particolare, ricostruendo la storia dell'umanità, Marx individua come (escludendo il periodo della cosiddetta preistoria) questo meccanismo di sviluppo possa essere rinvenuto in tutte le fasi storiche anche precapitalistiche[2].

Questa situazione, tipica di ogni forma sociale, si acuisce all'interno della società industriale di tipo capitalista, che si presenta caratterizzata da una maggiore concentrazione della proprietà in mano a pochi. Nella società capitalista, infatti, la classe operaia si trova alienata sia dai luoghi di produzione, le fabbriche, sia dalle tecniche di produzione (ormai standardizzate e sempre più meccanizzate), sia soprattutto dal prodotto del lavoro, che non solo non gli appartiene, ma che gli è sempre più estraneo in quanto fonte di guadagno per il capitalista. Ciò che rimane all'operaio è dunque soltanto la possibilità di vendere la propria forza lavoro, unica merce di cui dispone, in cambio di un salario di mera sussistenza[3].

Se dunque da una parte è giusto riconoscere il ruolo innovativo e propulsivo di questa riflessione, che costituisce non solo la prima vera e propria forma di denuncia allo sfruttamento operaio, ma anche il primo tentativo di dissacrazione della logica individualistica sottostante al capitalismo, dall'altra si deve ammettere che il pensiero di Marx diventa molto più contraddittorio nella parte riguardante la risoluzione del conflitto: seguendo infatti la struttura dialettica hegeliana, ogni contrasto sociale deve ineluttabilmente portare a qualcosa di nuovo, vuoi per via disgregativa, vuoi per via rivoluzionaria.

Per Marx, infatti, esistono due tipi di soluzione alla lotta di classe: il dissolvimento dei legami sociali, a causa del logoramento reciproco tra le classi, com'è avvenuto ad esempio per la società romana, e l'acutizzazione dello scontro fino alla rivolta della classe produttrice, com'è accaduto invece con la Rivoluzione Francese.

Tuttavia, nella situazione capitalistica a lui contemporanea, l'unica soluzione possibile, ed auspicabile per Marx, è la rivoluzione. In linea con quanto sopra affermato, infatti, il conflitto svolge una funzione precisa all'interno del processo di adattamento: quella di traghettare la società verso un nuovo livello di sviluppo.

Se dunque il merito principale di Marx è quello di aver colto nel conflitto tra le classi l'aspetto dinamico delle società, in quanto motore della storia e portatore di innovazione e cambiamento, il tipo di soluzione prospettata appare alquanto contraddittorio e caratterizzato da almeno due vizi interni. 

Prima di tutto infatti, molti studiosi si sono soffermati sul ruolo della rivoluzione in Marx chiedendosi se nell'autore essa fosse ritenuta come l'unica soluzione attuabile e in che modo essa possa essere interpretata in coerenza con il determinismo storico tipico della riflessione marxiana. Non sempre infatti Marx presenta la rivoluzione come l'unico rimedio possibile all'acutizzazione del conflitto sociale tipico del capitalismo: in un discorso commemorativo dell'insurrezione polacca nel 1867, ad esempio, auspica che la soluzione sia meno sanguinosa di quella rivoluzionaria. Ma è chiaro che, nella sua visione, la drammatica situazione di polarizzazione non incoraggia certo il perseguimento di strade pacifiche! Impedire infatti che il conflitto di interessi tra le parti della società maturi ed esploda, anche in modo violento, significa per Marx essere reazionari, "far cioè girare al contrario la ruota della storia". E d'altra parte, il problema che si pone in questo caso è come conciliare questa posizione radicale con la sua stessa idea determinista della storia secondo cui essa ‘segue ineluttabilmente il suo corso': in altri termini, che rapporto c'è tra la necessità storica e la volontà dei singoli soggetti? Questo aspetto rimane, infatti, in gran parte insoluto nella riflessione di Marx e porterà alla spaccatura tra concezioni marxiste più estreme e concezioni riformiste di stampo più determinista: se infatti è vero che la rivoluzione ha solo il compito di "levatrice della storia", allora rimarrà da spiegare se nella storia è implicito il socialismo, oppure se si tratta di un'ipotesi derivante dall'ottica interpretativa stessa.

Ma questa problematica solleva anche un'altra domanda che nasce da un elemento di forte contraddizione presente nel pensiero di Marx: se infatti si ritiene che il motore della storia sia rappresentato unicamente dalla lotta di classe, come è possibile concepire l'abolizione delle stesse classi sociali attraverso il comunismo? Ciò significa infatti introdurre un elemento di dogmatismo nella dottrina marxiana, di difficile ‘investigazione scientifica': si tratterebbe cioè dell'abolizione delle leggi stesse di sviluppo storico, intrinseche nell'evoluzione umana. Insomma, il problema è che il comunismo, se rappresenta davvero un tipo di società realizzabile, non può uscire dalla storia e non può contemplare l'inesistenza del conflitto sociale senza rischiare di cadere nell'utopia. Come dimostra il caso del socialismi storici, infatti, i tentativi di abolizione della proprietà privata e di soppressione delle classi sociali non hanno portato all'eliminazione del conflitto: esso rappresenta infatti una parte costitutiva della società e non può che essere considerato e affrontato come forma specifica di interazione sociale. 

Forse è proprio questo l'aspetto che Marx aveva sottovalutato: pur avendo il merito di aver individuato nel conflitto un elemento che, nella sua drammaticità, svolge comunque un ruolo positivo per lo sviluppo sociale di innovazione e sovvertimento dello status quo, nelle soluzioni proposte tradisce la sua concezione storico-realistica relegando il conflitto a patologia tipica di queste fasi storiche capitalistiche e precapitalistiche, senza riuscire veramente a trattarlo come un aspetto sociale proprio dell'interazione umana.

Inoltre, se si deve a Marx la capacità di riconoscere l'azione economica come un tipo specifico di azione sociale, che anzi nella sua concezione rappresenta l'azione sociale per eccellenza, tuttavia la sua dimensione collettiva e politica del conflitto, priva del fondamento comunicativo (in cui il conflitto assume sempre le vesti di scontro e mai di confronto) sembra decretare l'ipostatizzazione delle sue osservazioni sulla realtà sociale, rendendole, per metà, incoerenti e falsificabili.


[1] Molti studiosi hanno sottolineato, ad esempio, come la lettura che Marx fece della "società civile" hegeliana abbia costituito il principale spunto di riflessione, che portò l'autore a distinguere la società economica da quella politica.

[2] Nella società asiatica, ad esempio, si troverà lo scontro tra l'imperatore, signore delle terre, e il popolo; nell'economia schiavistica, si avrà invece l'antagonismo tra signori e schiavi; mentre nel periodo del feudalesimo si assisterà al duplice contrasto, in ambito agricolo, tra feudatari e contadini e, in campo commerciale, tra artigiani/apprendisti e corporazioni.

[3] Questo è ancora più vero in relazione con l'avanzamento del processo di modernizzazione tecnica delle fabbriche, che porta l'operaio a sentirsi un'appendice della macchina, un mero ingranaggio nella routine di produzione.

Messaggio

Chiara Lubich

L'amore fraterno stabilisce ovunque rapporti sociali positivi, atti a rendere il consorzio umano più solidale, più giusto, più felice...

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