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Intervento alla tavola rotonda interdisciplinare

Simonetta Magari[1]

Reciprocità comunionale in psicologia

La psicologia dell’ultimo Novecento asserisce che la mente è relazionale e che il rapporto con l’altro fonda e dà senso all’identità psichica di ogni individuo [2]. La sua relazionalità si nutre costantemente di una dinamica fatta di reciprocità.[3].

Negli ultimi anni le neuroscienze hanno dimostrato [4]. che la vita mentale di ciascun individuo è frutto di una “matrice intersoggettiva”, di un continuo dialogo con le menti degli altri [5].

Possiamo affermare con certezza che il “centro di gravità” della psicologia si è spostato dall’intrapsichico all’intersoggettivo. La matrice intersoggettiva, la reciproca interazione della nostra mente con la mente degli altri, si rivela fondamentale, indispensabile, è presente sin dalla nascita nella psiche di ogni individuo. Si ipotizza che esso nasce con un altro virtuale nella mente.

La matrice intersoggettiva sta alla nostra vita mentale come l’ossigeno ai nostri polmoni. Noi respiriamo l’ossigeno senza essere consapevoli, senza renderci conto che in mancanza di esso cesseremmo subito di esistere.

Tuttavia, la reciprocità su cui si fonda la matrice intersoggettiva della mente non costituisce un orizzonte “ultimo”, sufficiente a contenere la complessità e le potenzialità dell’individuo umano.

La sfida che oggi attende la psicologia consiste forse nel cogliere e teorizzare quella particolare forma di reciprocità, ancora del tutto inesplorata, che rende possibile la comunione fra gli individui.

 

La comunione si basa su un modo “ulteriore” di vivere la reciprocità che potremmo definire reciprocità comunionale. Le caratteristiche psicologiche e le implicazioni emotivo-affettive della reciprocità comunionale sono significativamente diverse da quelle che connotano la più generica reciprocità relazionale.

La reciprocità comunionale non solo implica il riconoscimento e l’accettazione vicendevole, ma presume la “totale” ospitalità dell’altro, la tensione alla comunione piena, la reciproca appartenenza, l’apertura alla completa condivisione, la radicale disposizione al dono gratuito di sé.

Ciò non esclude la possibilità di sperimentare la frustrazione e la solitudine che derivano dal non essere “corrisposti” nella medesima radicalità, nella stessa disposizione all’apertura comunionale.

Si tratta di fare dono gratuito di sé affinché l’altro emerga nei tempi, nelle modalità e nelle differenze attraverso cui si esprime la sua unicità, la sua identità individuale.

E’ evidente, del resto, che tale “non-corrispondenza” può inaspettatamente essere originata anche da me. Nonostante la mia iniziale disponibilità, la reciprocità comunionale può all’improvviso trovare in me stesso, nella mia demotivazione, nella mia chiusura, nel mio ripiegamento, il blocco psicologico che le impedisce di evolvere.

La reciprocità comunionale rende possibile la più elevata forma di relazione fra gli uomini, la comunione, dove finalmente appartenenza e individuazione, unità e molteplicità, si integrano in tutta la loro pienezza.

La psicologia è chiamata a confrontarsi con l’uomo-comunione, che realizza se stesso negandosi, facendosi dono gratuito per l’altro e rendendo così possibile la relazione di comunione.

L’incontro con l’altro nella comunione

Ma di quale comunione stiamo parlando? Non certo di una comunione che risulta da un insieme anarchico di irriducibili individualità, le quali di fatto sfuggono ad una esperienza di reale “appartenenza”. Né tanto meno di una comunione che non riconosce dignità all’individuazione e che assorbe l’io nel “noi”, sacrificando l’individualità sino a disconoscerla del tutto.

Piuttosto vogliamo riferirci ad una comunione “diversa”, dove individuazione e appartenenza non si contrappongono, ma si integrano pienamente; dove ciascuno esprime la propria identità non negando l’altro, ma aprendosi all’incontro con lui; dove l’appartenenza non mortifica la diversità, ma la riconosce e l’accoglie nel suo multiforme dispiegarsi.

Nella relazione di comunione la mia individualità raggiunge la sua pienezza e il suo compimento se è totalmente aperta all’altro. L’altro che incontro non è mai un “qualsiasi e generico” altro. Ogni singolo individuo, infatti, è sempre espressione di una parola, di una singola e originaria Idea, che l’Amore, ha avuto nel chiamarlo alla vita [6].

L’uomo comunione afferma se stesso nell’assoluto “darsi”, è “non-essendo” per l’altro, in una relazione con lui nella quale egli si fa “dono” gratuito e diventa termine di reciprocità. All’interno di una tale relazione, le differenze non emergono per contraddire l’altro, per competere con esso, ma per cooperare alla sua stessa edificazione. Ciascuna differenza è per l’altro e, a motivo di ciò, è continuamente trasformata in “dono”.

La reciprocità e il dono di sé

In una relazione di reciprocità, intesa in questi termini, la centralità della comunione non elimina, né assume in sé, la centralità della personalità individuale. L’esperienza del “noi”, alla quale approda la reciprocità comunionale, non cancella, né assorbe al suo interno, la differenza e la distinzione attraverso le quali si esprime l’identità unica e irripetibile dell’io. Dischiudendosi all’altro, in un’apertura accogliente che si fa dono di sé, fino a non-essere-per-l’altro, l’io attraversa l’esperienza del noi per poi riappropriarsi di una identità più arricchita, qualitativamente diversa da prima, “individuata” in maggior misura, in quanto capace di coniugare l’affermazione piena di sé con la donazione di sé.

Sottolineando con estrema convinzione il non trascurabile valore psicologico di questa nuova dinamica relazionale che unisce l’io all’altro, Chiara Lubich afferma: ”il mio amore non soltanto conferma lui nell’essere distinto da me, uguale a me, trascendente come me, ma ‘fa essere me’. Solo l’amore rende conto della diversità (o distinzione) salvando l’uguaglianza e rendendo così possibile l’unità”[7].

La reciprocità di cui stiamo parlando non si fonda sullo scambio del dare e dell’avere, non è neppure la reciprocità dell’amicizia, che non sa aprirsi al “non-amico”.

E’ piuttosto una reciprocità che coinvolge “ogni” altro e che è gratuita, non attende cioè restituzione o ricompensa, è incondizionale’. E’ una reciprocità che accoglie per intero la fragilità della relazione e la debolezza dei suoi protagonisti, trasformando tali limiti in ulteriori esperienze di donazione. La possibilità di donare, infatti, apre una duplice prospettiva di senso. Una riguarda la dinamica stessa della reciprocità, l’altra rimanda alla realizzazione individuale.

Il dono è reso possibile non solo dalla “diversità” dell’altro, ma anche dal suo limite, dal suo bisogno, dalla sua deficienza o mancanza. Non potrebbe esserci dono se non in risposta ad una qualche finitezza che l’altro presenta. Ecco, allora, che il limite non solo rende possibile il dono, ma diventa anche un aspetto saliente e indispensabile del reciproco relazionarsi.

L’altra prospettiva-condivisa da diversi autori tra cui Fromm, Nuttin e Frankl a cui, poi, ci riconduce il dono è quella della realizzazione individuale. Nel dono, infatti, ciò che viene “sacrificato” è soprattutto l’intenzione del ricambio, la rivendicazione di quanto mi appartiene, di quanto è “parte” di me e a cui rinuncio in modo definitivo per farne dono all’altro. Questo “sacrificio” di sé, della propria intenzione di ricompensa, non va considerato come una sottrazione, né come una “diminuzione” di sé, ma al contrario come l’esperienza del pieno “possesso” di sé, come afferma Jung[8].

Ognuno, infatti, non può donare ciò che non possiede. Sicché nel dono, paradossalmente, sperimento il possesso di me, di ciò che in effetti sono, delle risorse, delle capacità che di me fanno parte e che mi costituiscono nella mia singolare individualità. Il donare all’altro, così, svela me a me stesso, permette di conoscermi, di sperimentare ciò che realmente sono, di trasformare in realtà tangibile ciò che solo potenzialmente era racchiuso in me. In accordo con Cola si potrebbe affermare che il dono e la “perdita di me”, inaspettatamente, mi fanno essere ciò che non sapevo di essere e in tal modo mi fanno “realizzare”, mi fanno esprimere come presenza unica e irripetibile[9].

Chiara Lubich, a questo proposito, afferma che “io sono massimamente persona quando liberamente e coscientemente affermo l’altro anche a costo della mia vita (…).[10].

[1] Psichiatra e psicoterapeuta, Simonetta Magari è Direttore sanitario di un centro di riabilitazione per la disabilità intellettiva e docente alla scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università Cattolica di Roma, nonché coordinatrice del gruppo di ricerca affine a Social-One, “Psicologia e Comunione”.

[2] Cfr. S.A. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2002; D.J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2001.

[3] Cfr. D.N. Stern, Il momento presente, op. cit.

[4] Cfr. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006.

[5] Cfr. J. Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999; D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1998.

[6] Cfr. H. Blaumeiser, “All’infinito verso la disunità“. Considerazioni sull’inferno alla luce del pensiero di Chiara Lubich, in “Nuova Umanità”, 1997, 113, pp. 543-570.

[7] C. Lubich, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Lettere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, in “Nuova Umanità”, 1999, 122, p. 186.

[8] Cfr. C.G. Jung, Il simbolismo della Messa, Boringhieri, Torino 1979.

[9] Cfr. S. Cola, Morte e resurrezione, op. cit.

[10] C. Lubich, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Lettere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, op. cit., p. 187.

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